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La libertà nella prospettiva delle scienze umane - Senso sociale e libertà

Servizio comunicazione istituzionale

Continua il ciclo di interviste Riflessioni sulla libertà. Uno sguardo alle scienze umane in collaborazione con l’ISI, l’Istituto di studi italiani dell’USI.  Vincenzo Matera, docente presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’USI e professore ordinario all’Università degli Studi di Milano, approfondisce il tema del senso sociale in relazione alla libertà.

 

Professore, quali osservazioni possiamo fare come introduzione al tema? 

Per rispondere alla domanda, molto complessa, su cosa sia il senso sociale e che relazione abbia con la libertà desidero ricordare quanto ha scritto un celebre antropologo, Marc Augé, in un libro dedicato a un’ampia riflessione sul senso della nostra esistenza sociale: “Tutti i gruppi umani hanno cosmologie, rappresentazioni dell’universo, del mondo e della società che propongono ai loro membri dei riferimenti per conoscere il proprio posto, sapere cosa è possibile e impossibile, quello che è permesso e vietato.  Questi punti di riferimento possono materialmente inscriversi nello spazio (per esempio sotto forma di statue, santuari o luoghi naturali caratteristici), imprimersi sugli utensili e gli strumenti della vita quotidiana, a volte sulla carne, per esempio sotto la forma di scarificazione.  I miti sviluppano le cosmologie e i riti le mettono in opera: le vite individuali si ordinano essenzialmente sul modello così disegnato. Quanto più è forte l’adesione a questo modello, tanto meno libertà è presente, mentre è presente tanto più senso; gli individui non hanno voglia di fare altro da quello che gli è imposto o consentito: sanno cosa devono fare ed anzi sanno meglio ancora cosa non devono fare.  Il loro mondo è senza libertà ma impregnato di senso” (Marc Augé, 2004, Perché viviamo, Meltemi, pag. 11).

Le parole di Augé delineano una relazione piuttosto sorprendente tra “senso sociale” (senso di appartenenza a una comunità) e “libertà”: più le nostre scelte sono “obbligate” (pensate a espressioni come “non avevo scelta”, “ho dovuto farlo”, ecc.) più si caricano di senso. Agisce qui un modello teorico classico dell’antropologia culturale, che pone in primo piano, per comprendere il senso delle vite individuali – non a caso il libro da cui ho tratto la citazione si intitola Perché viviamo - l’esigenza primaria dell’uomo di dare (e darsi) un assetto “stabile, ordinato, dotato di una direzione”. Come si ottiene un tale assetto? Mediante la costruzione di sistemi di riferimento (modelli, arbitrari, perché storici) rispetto ai quali si dispongono le vite delle persone. Aderire al modello che la nostra società ci propone (o ci impone) significa per i più ottenere un’esistenza dotata di senso, riconosciuta, apprezzata, quindi gratificante. E’ così che si ottiene la “felicità”? Probabilmente no, ma, come è stato detto, la felicità non è di questo mondo. In un tale quadro, per inserire uno spunto in più, possiamo ricordare che, di norma, i momenti di esaltazione, nella vita di una persona, coincidono con momenti di “rottura” dell’ordine quotidiano, momenti straordinari, appunto, in cui si esce da una ripetitività e ci si sente magari anche “liberi, finalmente!”. Ma si tratta di momenti di breve durata, destinati a risolversi in un rientro nei ranghi sociali oppure, qualora persistesse la spinta sovversiva in un individuo anche oltre il periodo per esempio festivo, celebrativo, orgiastico che ogni comunità umana ha sempre previsto e concesso ai suoi membri, costui sarebbe inevitabilmente condannato a un’esistenza ai margini, isolato, messo fuori dal perimetro della comunità. Tra libertà e senso sociale, insomma, c’è una relazione complessa, ambigua, conflittuale. Possiamo aggiungere qui un riferimento alla nota riflessione di Eric Fromm che, in Fuga dalla libertà, sostiene che la crisi dell’autonomia dell’individuo (che traeva le sue fondamenta da un solido rapporto etico padre-figlio) provochi una fuga verso il modello dell’autorità collettiva incarnato dal dittatore, e verso una forma di “subordinazione masochistica” (la sottomissione al capo propria di ogni ideologia fascista, totalitaria). Scrive Fromm che in questo modo l’individuo: “(…) conquista una certa sicurezza trovandosi unito a milioni di altri che condividono questi sentimenti (E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità Milano, 1963, p. 127)”.

Del resto, uno dei contributi più rilevanti della Scuola di Francoforte è la critica della società di massa, il cui avvento appare infatti ai suoi esponenti come un disastro per l’individuo.

La società di massa non riduce le disuguaglianze, anzi, estende i meccanismi di dominio dalla sfera lavorativa (lo sfruttamento del proletariato da parte del capitalista) fino a ogni momento della vita quotidiana (tempo libero incluso) degli individui. Anche la libertà individuale si rivela allora una finzione delle moderne società democratiche: aumenta in apparenza la nostra libertà di scegliere, ma in realtà tutti noi restiamo comunque in balia di strumenti come i mass media (e con i cosiddetti new media la nostra dipendenza non fa che aumentare, pensiamo a quanto ormai non possiamo fare a meno dello smartphone), la pubblicità, il consumo, che si mostrano strumenti di coercizione.

Anche l’industria culturale, che corrisponde a una di quelle cosmologie che ci dicono come dobbiamo essere e vivere indicate da Marc Augé, organizza momenti di svago, di divertimento, attività culturali, che sono in realtà finalizzate a raggiungere una pressoché totale uniformità degli individui, azzerando quindi l’individualità.

La manipolazione delle coscienze ha lo scopo di indurre a determinati consumi, e così facendo svolge pure la funzione di mantenere l’ordine dato, eliminando qualsiasi capacità, anche interiore, di ribellione da parte degli individui. Herbert Marcuse, nel suo famosissimo libro L’uomo a una dimensione (1964), ribadisce questa riflessione: l’uomo a una dimensione è l’uomo membro delle società di massa, privo della sua capacità critica, totalmente incastrato nel sistema, anzi, addirittura complice della riproduzione del sistema stesso. La società industriale avanzata, afferma Marcuse con una certa capacità predittiva, attraverso la tecnologia, invade e distrugge quello “spazio privato” in cui l’uomo, pur sempre formato dalla e nella società, può (avrebbe potuto) mantenere una sua autonomia. Questo non accade più allorché la produzione industriale di massa si prende totalmente l’uomo in ogni suo spazio. Ne risulta una identificazione piena dell’uomo con la società.

 

Si dice che la mia libertà finisce dove inizia la sua: è vero?

Anche in questo caso, seguendo un importante suggerimento di Umberto Eco, avvio la riflessione legata alla domanda collocandomi “sulle spalle di un gigante”, per vedere più lontano. Il gigante è in questo caso una studiosa allieva di Claude Lévi-Strauss, un’antropologa francese che ha portato avanti l’insegnamento del maestro in modo molto significativo. Françoise Heritier afferma:

“Per rendere una società vivibile, è stato necessario legiferare e regolamentare un certo numero di pulsioni inerenti alla condizione umana. Le due pulsioni meglio controllate, racchiuse in corpi giuridici vari, sono da un lato quella che colpisce la vita e la sicurezza fisica altrui, dall’altra quella che attenta alla proprietà altrui: case, campi, animali, oggetti, possessi vari acquisiti legalmente in diversi modi (un altrui definito in modo così preciso che queste regole limitative non proteggono, com’è noto, un umano qualsiasi)” [in Dissolvere la gerarchia, Raffaello Cortina Editore, 2004, p. 200].

Le prime parole di Heritier sembrano tutto sommato confermare l’affermazione ricordata nella sua domanda, attribuibile a M. L. King e parte del senso comune a proposito di libertà: perché una società sia vivibile, e non diventi un focolaio infinito di conflitti, sopraffazioni, aggressioni ecc., nella storia dell’umanità è stato, è necessario regolamentare, fissare dei limiti, indicare confini invalicabili a protezione della stessa vita umana e anche delle proprietà (legalmente riconosciute come tali) di ciascuno. Del resto, il “non uccidere” e il “non rubare” hanno radici antiche e sono parte costitutiva di quel patto con Dio che metterebbe gli uomini nella condizione privilegiata di essere liberati da ogni forma di peccato. Dio non impone i comandamenti per sottomettere gli uomini ma, al contrario, le tavole della legge sono intese, nella visione religiosa, come il fondamento della nostra libertà in direzione della salvezza eterna. E qui, mi sento di aggiungere un altro riferimento fondamentale: “A maggior forza, e a miglior natura, liberi soggiacete” (purgatorio, canto XVI)”.

Il “liberi soggiacete” di cui ci parla Dante – senza spingersi in complesse interpretazioni di un verso molto discusso della Divina Commedia – in parte ritorna a mio parere nell’idea che “la coscienza dell’uomo è determinata dalla sua esistenza sociale” e più in generale nella convinzione che gli individui siano comunque “dominati” dalle strutture sociali e culturali entro cui sono incastrati. Se partissimo dal fatto che l’uomo è un animale consapevole, in grado di agire in base a un progetto, in vista del raggiungimento di alcuni scopi, e ci spingessimo fino a dichiararci d’accordo con il famoso passo de Il Capitale in cui questo concetto è espresso da Marx attraverso il paragone – in cui il primo è comunque vincente - fra il peggior architetto e l’ape migliore, ci troveremmo di fronte a un problema costante per gli antropologi, oltre che per i linguisti, ma ancor prima per una moltitudine di filosofi e di teologi: spiegare la capacità umana di agire, appunto in base a un’idea, a un progetto, a una coscienza, o per via del libero arbitrio, che dir si voglia, fermi restando i vincoli e le costrizioni che ogni vivere sociale impone. E’ un’imposizione che detta però la nostra libertà, secondo un meccanismo in parte ossimorico.

Ritroviamo qui quanto descritto a partire dal passo citato sopra di Marc Augé: più una società ci indica in modo rigoroso la condotta cui ci dobbiamo attenere, il nostro posto nel mondo, più ci sentiamo “sicuri” del senso del nostro agire e certi della nostra identità. Ma tutta questa certezza ha un prezzo in termini di perdita della capacità di pensiero critico, che è la vera matrice della nostra libertà.

La perdita della capacità di pensiero critico ha delle conseguenze nefaste. Veniamo quindi alla seconda parte delle parole di Françoise Heritier, in cui si fa riferimento a quell’ “altro” rispetto al quale la mia libertà deve essere limitata: costui non è un qualsiasi essere umano, ma è molto ben definito in base a precisi criteri “culturali” e “identitari”. Il rispetto per l’altro e il riconoscimento della libertà altrui finiscono infatti (o si attenuano, nella ipotesi migliore) allorché si oltrepassano i confini del “noi”, del gruppo cui apparteniamo e nel quale ci riconosciamo. Questa precisazione è importante tanto quanto drammatica: ci consente di riconoscere che “libertà” – al pari di una nozione come quella di “diritti umani” – è un prodotto storico, una derivazione, potremmo dire, del senso sociale specifico proprio di ogni formazione sociale. Azioni lesive della libertà altrui, e anche dei diritti umani altrui, vietate e punite se commesse nei confronti di appartenenti al mio gruppo, appaiono del tutto legittime e a volte sono anche incoraggiate se rivolte all’esterno. Il “non ucciderai” di cui sopra, si è realizzato storicamente, ahimè, in un “non ucciderai altri del tuo gruppo, altri come te”. Questo ci porta a riflettere sui “confini” dell’umano: umano significa “conforme alla natura umana”, “dotato di umanità”; umanità significa, “insieme di tutti gli uomini”, “benevolenza nei confronti del prossimo”; c’è un legame fra l’appartenenza alla stessa specie e il percepire come “umano” qualcun altro, fra la sfera dell’umano e l’ambito della “comprensione empatica”: l’altro “pensa, sente, soffre proprio come noi”. Però, nella maggior parte delle società, questo legame non è ben chiaro, anzi, appare evidente – e non è necessario del resto andare troppo lontano nello spazio o troppo indietro nel tempo - che molto spesso i comportamenti aggressivi, fortemente repressi nei confronti dei membri del proprio gruppo, diventano pienamente legittimi se rivolti contro “estranei”. La doppia morale appare una caratteristica di tutte le società, nessuna esclusa. Su cosa si fonda la “doppia morale”? Forse sulla mancata percezione della sofferenza altrui? Non pare, perché il rapporto uomo – altri animali non deriva da un errore percettivo, ma dal fatto che gli uomini (alcuni uomini, la gran parte diciamo) ritengono di avere il diritto di comportarsi come fanno. Ciò, per estensione logica, sembra valere anche nei rapporti entro la stessa specie umana. Vale a dire, nonostante chi infligga sofferenze a altri esseri umani non possa non essere consapevole della loro sofferenza e del loro dolore, perché ciò dovrebbe essere rilevante? Quegli esseri sono così diversi da me, da noi, sono, appunto, dei “nemici” e come tali o, meglio, per essere resi tali, devono essere spinti fuori dai confini dell’umanità. La forza delle idee può rendere – di fatto rende – precari e revocabili gli stessi confini dell’umano. Per cui di fatto non sempre, purtroppo, è vero che la mia libertà finisce dove inizia quella altrui, così come non tutti gli “umani” hanno questo riconoscimento pieno sul piano dei diritti. Ci sono ancora oggi, nella percezione delle moderne società democratiche occidentali, vittime di serie a e vittime di serie b, profughi di serie a e profughi di serie b… libertà di serie a e libertà di serie b. Non credo sia necessario fare dei casi concreti.

 

In che modo è importante parlare di libertà e responsabilità sociale e qual è il modo giusto per fare sì che questi due aspetti “collaborino” tra loro?

E’ molto difficile trovare un punto di equilibrio fra libertà (individuale?) e responsabilità sociale, perché dobbiamo partire dal riconoscere che l’equilibrio non esiste in natura ma nemmeno nelle società, che sono entrambe attraversate da relazioni gerarchiche. Può essere interessante avviare una riflessione, per delimitare il campo e fare qualche esempio. Facciamo un esempio: l’attentato terroristico del 7 gennaio 2015 alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo come risposta alla pubblicazione di vignette satiriche nei confronti dell’Islam. Questi caso – al quale molti se ne potrebbero aggiungere -  è indice della  tensione che si crea inevitabilmente tra linguaggi, forme espressive, visioni del mondo, valori che confliggono in un mondo sempre più interconnesso in cui la libertà di far sentire la propria voce (ancorché offensiva) è amplificata oltre misura. In un contesto così problematico, molti si battono per l’affermazione del diritto alla libertà di espressione, considerato uno dei pilastri della cultura occidentale. La libertà di espressione di un paese, si dice, è il banco di prova di ogni democrazia. “Essa per essere tale deve essere totale”, ha sostenuto un noto filosofo come Giulio Giorello. Secondo questa prospettiva evitare la satira per il timore delle reazioni significherebbe arretrare sul piano dei valori, mentre sarebbe importante ribadire che il diritto alla libertà d’espressione è una della grandi conquiste della storia occidentale. Un altro fenomeno che sfida il principio della libertà di parola è l’Hate speech. Il punto in comune fra la satira e l’hate speech è l’ indubbio valore performativo di entrambi. “Dire” equivale in entrambi i casi (e in molti altri) a “fare”. Un ordine, una richiesta, un elogio o un insulto generano conseguenze. La parola in questi casi è una forma di azione: le espressioni di odio e razziste sono in se stesse atti di violenza. Quindi, se la censura è indesiderabile, anche l’impunità totale della parola non lo è di meno. Partendo da questo presupposto, possiamo tentare di ripensare i confini (le limitazioni alla libertà) dei nostri codici comunicativi a partire appunto dal concetto di responsabilità, in relazione alle conseguenze delle nostre parole. La libertà di satira ci apparirà allora come non illimitata, così come non illimitata è la libertà di stampa, dal momento che entrambe implicano responsabilità etiche e politiche. Il mito della “libera espressione” nasconde che alcuni sono più liberi di esprimersi di altri e hanno maggiore accesso agli strumenti con cui farlo, e che nella vita reale si ha a che fare non con astratti principi ma con complesse questioni di contesto.

La libertà di espressione dovrebbe essere quindi bilanciata dalla responsabilità verso i propri discorsi, dalla consapevolezza dei loro possibili effetti. Sicuramente la libertà di espressione è un valore irrinunciabile; accompagnata dalla consapevolezza del potere delle nostre parole e della responsabilità che da esso consegue. Questo significa alimentare, come dicevo sopra, il pensiero critico e consapevole, il nostro principale strumento di libertà.